Scandalo dei bilanci. Bilancio di uno scandalo

Come era prevedibile, la nuova ondata mediatica generata dalle richieste di rinvio a giudizio per i protagonisti di Calciopoli ha contribuito a gettare altra sabbia su quello che sarebbe lecito definire come il vero e unico scandalo del pallone nostrano.
Plusvalenzopoli, Bilanciopoli, Marchiopoli, non è facile (e forse è superfluo) dare un nome ad uno dei fenomeni più invasivi e perniciosi in un secolo di football italico. E non è facile nemmeno parlarne, viste la complessità e le intricate sfaccettature della materia. Soprattutto in contrapposizione alla semplicità – e superficialità – con la quale è stata trattata la matassa Calciopoli, sdoganata come la più grande dimostrazione di corruzione arbitrale di tutti i tampi. Ma laddove di arbitri, e di condizionamenti, non se ne vede nemmeno l’ombra, dall’altra parte vi sono le evidenze di una mala gestione economico-finanziaria e di un modo assai originale, nonché pericoloso, di interpretare il management sportivo.
Piccolo clamore è stato sollevato in occasione del caso Brunelli (plusvalenza selvaggia e firma falsa sul contratto di cessione del calciatore, il tutto sigillato da prescrizione) che ha rappresentato la punta dell’iceberg di un sistema incrinato instauratosi molti anni addietro. Scarsissimo risalto ha invece ottenuto la notizia della chiusura indagine del pm di Milano, Nocerino, riguardo ai bilanci di Milan e Inter. Accuse molto pesanti, con un aggravante decisiva per i nerazzurri: senza gli artifici contabili il club di via Durini non avrebbe potuto iscriversi al campionato 2005/06, quello conquistato a tavolino.
Il fatto, e la gravità dello stesso, ha scatenato la reazione giustificativa della quasi totalità del palcoscenico mediatico, che ha immediatamente bollato la questione come affaruccio da scarpivendoli. Per usare le parole di un noto giornalista: un’influenza, paragonata ad un cancro.
Pare invece si tratti del contrario: una metastasi quella delle plusvalenze e del “doping amministrativo” che ha radici lontante (dal 1999, quando Lazio e Milan presero a scambiarsi a suon di miliardi minorenni carneadi di ignota qualità) e che ha permesso al carrozzone di tirare avanti senza conseguenze per lungo tempo. E l’evidenza, la prova provata che alla base di queste logiche pseudo-imprenditoriali (i soldi dove non ci sono) risiede nell’invenzione della ben nota Legge Salvacalcio che, nel 2003, ha sbrogliato la matassa di un sistema ormai avvitato su se stesso.
“Un falso in bilancio legalizzato” l’ha definito Victor Uckmar, ex presidente di Covisoc, rendendo ottimamente l’idea di una decisione che, all’epoca, fu emanata con la piena consapevolezza del successivo rigetto istituzionale da parte dell’Unione Europea.
Il fenomeno plusvalenze ha quindi il suo cul-de-sac nel provvedimento ad hoc ideato dal governo berlusconiano, che ha consentito alle società sofferenti la prosecuzione della loro routine gestionale, caratterizzata da spese folli e scriteriati investimenti. Infatti, sono i numeri a parlare: grazie alla Legge l’Inter ha potuto aggirare 331 milioni di ricapitalizzazione, 242 milioni il Milan, 181 la Roma e qualcosa in meno la Lazio. Quantità di denaro enormi che, se fossero state versate – come Codice Civile impone – in un’unica soluzione, avrebbero causato il collasso del sistema calcio. Già, sistema, parola recentemente abbinata alla Juventus ma che di fronte all’eloquenza assordante dei dati di fatto non può che applicarsi ad un oligarchia di stampo milanese-romano.
Troppo semplice, invero, ricordare che la Juventus – insieme ad altre squadre “minori” – è stata l’unica squadra a non avvalersi degli agi e delle comodità del provvedimento governativo. Altrettanto elementare comprendere che, senza quel generoso aiuto, le squadre sopra menzionate, qualora fossero riuscite ad iscriversi al campionato, avrebbero in ogni caso dovuto rinunciare a faraoniche campagne acquisti a base di strapagati campioni.
E non è applicabile una delle giustificazioni principe da parte di chi, accusato, è stato costretto ad organizzare una difesa d’emergenza: i presidenti delle squadre in questione sono talmente ricchi che avrebbero comunque ricapitalizzato le somme necessarie. Ammesso fosse vero, giova ricordare che il “reato” è stato ugualmente commesso e senza che nessuno pagasse. Ragionando in questo modo sarebbe come uscire dal ristorante senza saldare il conto e rispondere al gestore di essere talmente facoltosi da poterlo corrispondere quando si vuole, ricevendo in cambio le sue congratulazioni e felicitazioni.
In punta di diritto verrebbe da dire che chi sbaglia paga, e che le leggi esistono per essere applicate. È sufficiente quindi consultare l’articolo 7, comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva:

«La mancata produzione, l’alterazione o la falsificazione, anche parziale, dei documenti richiesti dagli Organi di giustizia sportiva e dalla CO.VI.SO.C., ovvero il fornire mendace, reticente o parziale risposta ai quesiti posti dagli stessi Organi, costituisce illecito»

Le conseguenze che un illecito comporta sono note a tutti.
Da sfatare anche un altro mito che accompagna le affannate contorsioni difensive dei campioni del bilancio creativo: è impossibile determinare il valore di un giocatore; anche se giovane è sconosciuto nessuno può impedire di valutarlo milioni di euro.
Falso, a scopi di regolarità e trasparenza del conto economico, vengono predisposte perizie mirate a stimare il patrimonio delle immobilizzazioni immateriali (il parco giocatori, in sostanza), le quali tengono conto della notorietà e della carriera (presenze nel club, in nazionale, reti segnate, premi e riconoscimenti) di ogni singolo calciatore. Ma, anche ammettendo la natura parzialmente soggettiva di una perizia, è fondamentale mettere in luce un altro aspetto (decisivo) della questione: la cessione milionaria del calciatore oggetto di plusvalenza non è univoca e isolata, ma è sempre accompagnata da una corrispondente cessione in direzione opposta. È il meccanismo della “plusvalenza fittizia incrociata”.
In sostanza, ci si scambia giocatori con il solo fine di scrivere, sulla carta, denaro che in realtà non esiste. Un congegno perverso che, ad esempio, ha permesso alla Roma nel 2002 di “incassare” ben 95,3 milioni di euro, a fronte del trasferimento di ben 20 elementi delle giovanili (Marco Amelia, Cesare Bovo, Franco Brienza, Simone Casavola, Daniele Cennicola, Daniele De Vezze, Giuseppe Di Masi, Simone Farina, Alberto Fontana, Gianmarco Frezza, Armando Guastella, Daniele Martinetti, Giordano Meloni, Matteo Napoli, Simone Paoletti, Manuel Parla, Marco Quadrini, Cristian Ranalli, Fabio Tinazzi, Alfredo Vitolo) a Cagliari, Cittadella, Ancona, Torino, Salernitana, Reggiana, Piacenza, Palermo, Cesena, Cosenza, Livorno, Messina, Napoli e Lecce che hanno contemporaneamente girato ai giallorossi altrettanti sconosciuti pedatori.
Facilissimo perciò comprendere la natura malsana di questo ingegnoso escamotage contabile. Quindi, se da una parte (Calciopoli) ci si barcamena tra sospetti popolari e molta poca sostanza, dall’altra si viaggia supportati dai numeri e dall’evidenza. Non ci si aspetta la rivoluzione di un calcio ormai troppo legato a logiche televisive industriali, ma ci si attende che, una volta per tutte e per davvero, venga finalmente fatta giustizia.