Fra 3 anni ripasso. Forse

Ranieri e BlancDopo tre anni ritornavo allo stadio. L’ultima volta era stata per un Juventus-Lazio terminato 1-1, l’anno era il 2006 e le cose erano diverse. Molto diverse. Allora eravamo antipatici, arroganti e vincenti, giocavamo in uno stadio nostro che stava per essere ristrutturato e ospitavamo a giornate alterne i cugini granata, che non pagavano nemmeno l’affitto tanto erano sul lastrico. Oltre a questo, avevamo in cantiere un vero progetto che in prospettiva ci avrebbe portato a dominare per anni più di quanto già stessimo facendo. Un progetto stoppato brutalmente da ciò che sarebbe scoppiato quindici giorni dopo, quel fattore che ha originato la Juventus odierna, non più antipatica (dicono, ma a noi non sembra) bensì signorile e perdente, che gioca in uno stadio altrui in attesa di ricostruire il proprio, iniziativa ereditata dalla precedente gestione (quella bollata come ladra da sentenze sportive, opinione pubblica e soprattutto dai suoi stessi datori di lavoro) e ad oggi unica cosa degna di essere definita “progetto”, termine sbandierato ad ogni pié sospinto ma che dopo tre anni appare ancora un cumulo di promesse mai mantenute. Quel pareggio in rimonta contro la squadra di Lotito diede qualche speranza di recupero al Milan, speranza ricacciata indietro di li a poco in quel di Bari, dove sul campo la squadra di Capello vinse il suo 29esimo scudetto, quello revocato e riassegnato all’Inter pur in assenza di qualsiasi indagine a riguardo di quel torneo.
A parte l’esito di quel campionato deciso da Guido Rossi e dagli amici di Cannavò, quel 22 aprile 2006 mi lasciò la solita impressione di normalità, di perfetta sintonia con la storia della Juventus: nonostante il calo che la squadra mostrava, avere il meglio in campo e in panchina per lottare e raggiungere l’eccellenza sportiva infondeva tranquillità. E juventinità. Vicende personali mi impedirono di seguire dal vivo il finale di quel campionato, e curiosamente mi trovai a lasciare la Juve che conoscevo, rinunciando volutamente ad abbonarmi negli anni post Calciopoli, non perché mi facesse schifo la serie B o perché mi desse fastidio la consapevolezza di non essere competitivi per il vertice, quanto perchè la gestione di tutta la faccenda andata in scena nell’estate del 2006 mi aveva lasciato disgustato, svuotato e pieno di rancore verso i nuovi dirigenti e il ramo della proprietà che li aveva insediati.

Non ho mai smesso di seguire la Juve, come nessuno di noi ha mai smesso di fare, nonostante in molti ci abbiano appiccicato l’etichetta di contestatori a prescindere, per non parlare di chi ci definiva e ci definisce “vedove di Moggi”. Siamo i primi a gioire delle vittorie della squadra, dei successi che hanno il sapore di vera Juve che in questi due anni i ragazzi ci hanno regalato, per quanto effimeri e, quindi, in completa distonia con la storia della Juventus. Ma allo stadio avevo rinunciato, per una scelta del tutto personale nel non volermi sentire colpevole finanziatore degli acquisti di Poulsen, Tiago, Almiron e Knezevic, pur rispettando pienamente chi ha optato per la scelta opposta.
Ieri sera invece, complice una giornata programmata da quelle parti, qualcosa che non ho ben compreso mi ha trascinato al vecchio Comunale, nonostante il freddo terrificante e i 50 euro per una tribuna Est TIM contro il Cagliari, roba da far arrossire i contestatori di Giraudo, colpevole di essere granata e vampiro per le tasche dei tifosi. Oggi abbiamo Montali, e non è difficile confrontare e giudicare i primi due anni e mezzo dell'uno e dell'altro. La prima sensazione è stata in realtà un conflitto di sensazioni: il disagio di vedere copie della Gazzetta rosa campeggiare su tutti i seggiolini, dopo tutto il male che ha scritto di noi e continua a scrivere, si alternava al sottile piacere che ricavavo dall’utilizzare il suddetto fogliaccio come cuscinetto per le mie terga. La sensazione che mi ha trasmesso il campo, invece, credo sia l’emblema degli ultimi anni juventini. In novanta minuti c’è stato tutto quello che non è mai stata la Juventus dal 1897 al 2006, in campo e fuori. Quanto era organizzazione, programmazione, pragmatismo e concretezza quella, tanto questa si identifica in confusione, approssimazione, ingenuità e illusione. Confusione dall’inizio, dove ci si è affidati all’orgoglio di qualche vecchio campione chiamato ad iniziative estemporanee a dispetto dell’anagrafe e dell’usura, e a qualche giovane dal futuro interessante (eredità della Triade, come lo stadio) ma in serio pericolo a causa dell’incerta guida tecnica di Ranieri, mentre dall’altra parte c’era una squadra indiscutibilmente di secondo piano ma organizzata e a tratti piacevole. Approssimazione perché i migliori acquisti di questa gestione nel momento più difficile e decisivo della stagione latitano (Amauri) o commettono errori di gravità imperdonabile (Sissoko, un talismano al contrario: non segna mai, ma quando segna si perde in casa 3-2 e le stagioni svoltano negativamente…). Approssimazione anche perché per l’ennesima volta siamo a dover conteggiare due infortuni muscolari, e se la cosa può essere cronica e prevedibile per Zanetti altrettanto non si può dire per Chiellini, come in autunno accadde a Legrottaglie e Poulsen, e in tempi più recenti a Iaquinta e Salihamidzic, gente dalla carriera sostanzialmente priva di grandi infortuni. Approssimazione negli acquisti di gente dall’infortunio facile (Knezevic) e nell’affidarsi per compilare la famosa “rosa di due uomini per ruolo” a soggetti dalla carriera da tempo spezzettata come il già citato Zanetti, e come Zebina, Camoranesi e Buffon. Ingenuità perché una squadra dall’età media elevata e comunque superiore all’avversario, nonostante il momento non brillante, non può permettersi di subire due gol in contropiede, soprattutto il primo in apertura di ripresa dopo aver chiuso il primo tempo in vantaggio.
L’insieme di questi fattori spegne l’Illusione, che era forte e tale sarebbe rimasta anche oggi, ancora più che nella scorsa stagione, alla luce della pochezza di questo campionato e delle occasioni che Mourinho sta elargendo a piene mani agli avversari. Illusione che invece sembrerebbe sfumata in 4 giorni, quando appena sette giorni fa eravamo agganciati all’Inter in attesa del posticipo che i nerazzurri avrebbero dovuto disputare contro la Samp senza il loro uomo migliore. Quello che giocava ancora con noi l’ultima volta in cui vidi la Juve dal vivo e che ora guida alle vittorie finali i nemici di sempre, mentre noi viviamo di battaglie vinte e guerre perse, per giunta combattendo poco, se non addirittura rinunciando a farlo.
In estrema sintesi l’esperienza di questa società, che deve stare nel sistema in quanto indispensabile al suo funzionamento, perché senza di lei il movimento non conta nulla, ma non deve infastidire o non ne è capace. Soprattutto è la sintesi della carriera di Claudio Ranieri, brava persona ma allenatore mediocre, come da motivo più gettonato tra i reclami del pubblico presente allo stadio. Un Mister cui è sempre mancato qualcosa per effettuare il salto decisivo verso il grande risultato, e per questo mai accostato alla Juve vera. A quella venivano accostati giovani di carattere con potenzialità poi espresse da numeri uno (Lippi, Trapattoni), e numeri uno assodati (Capello). Ranieri è il compromesso per una Juve abbandonata al provvisorio, una Juve per la quale l’importante è partecipare e “fare bene”. Storicamente, una bestemmia anche per chi (Boniperti) si è speso come strenuo difensore di questa Juve. E Ranieri tutto questo lo sa, come lo sa anche il tifoso, che esprime un umore misto di rabbia e rassegnazione per la presa di coscienza dell’avvenuto ridimensionamento, e sebbene in società e sui media amici si continui ad elogiare l’operato di questo staff tecnico-dirigenziale, rispettato e ipocritamente incensato anche dai nemici (ovvio: finchè ci saranno Blanc e soci al comando non ci saranno pericoli per gli avversari…), i commenti e i mugugni vertevano su un unico concetto: questa non è la Juventus, troppa gente non è all’altezza.
E la sensazione diffusa tra la gente è che i primi a non essere all’altezza siano gli uomini che non scendono in campo.