Disastro Del Neri, addio Champions League

delneriProbabilmente oggi si è consumata la pagina più brutta di questi anni di Juve, almeno dal punto di vista tecnico.
Perdere sonoramente e meritatamente contro una squadra decimata, sull’orlo della serie B, per giunta detentrice della peggior difesa di tutto il campionato, è un segnale di arrendevolezza mai visto prima.
E qui sul banco degli imputati sale prima di tutti Del Neri.
Perché gli alibi sono finiti, com’è finita la rincorsa agli obiettivi minimi.
Gli infortuni non possono più essere il pretesto per giustificare prestazioni negative e scarsità di risultati.
La rosa è al completo, il morale avrebbe dovuto essere al massimo, dopo due successi consecutivi densi di significato, ma se neppure un avversario fragile (46 gol subiti in 25 partite) riesce a stimolare la fame di chi preferisce addentrarsi in sterili proclami (“a Lecce partita-bivio della stagione”, “non firmerei per il quarto posto”, ecc. ecc.) piuttosto che badare alle cose di campo, ecco che escono di prepotenza i difetti di un tecnico bravo a “cucire” la sua formazione su misura agli avversari di grido, ma assai in difficoltà quando chiamato a preparare la partita contro le piccole.
Per fare qualche esempio: Bari, Brescia e Lecce vantano un bilancio in perfetta parità contro la Juve, e sabato arriva il Bologna…
La conseguenza più grave di questo andazzo, e del match odierno in particolare, riguarda l’obiettivo minimo (il quarto posto) tanto reclamizzato anche alla vigilia e allo stato attuale praticamente sfumato: sia per i punti di distacco dalle posizioni utili (-7) e soprattutto per l’inaffidabilità cronica di un gruppo di mediocri, da stasera ripiombati al settimo posto in graduatoria.
L’espulsione di Buffon e altre scuse puerili e persino ridicole (come quella relativa al forte vento che nella prima frazione avrebbe messo in difficoltà la Juventus…) non fanno testo: è stato tutto un incubo, sintesi di quest’annata ormai destinata a concludersi in modo simile - se non peggiore, almeno in termini di classifica - a quella che l’ha preceduta.
Una squadra come la Juve contro un simile avversario deve vincere sempre, in qualsiasi condizione climatica e anche in inferiorità numerica.
La Juve di concreto non crea nulla, e sebbene ad inizio ripresa crei i presupposti per una minima reazione, ci pensa Del Neri ad inserire il deleterio Iaquinta, al solito impeccabile nell’intasare l’area avversaria favorendo il lavoro dei difensori giallorossi, cui non par vero di avere un punto di riferimento così pachidermico e falloso.
Viceversa il Lecce, detentore fra l'altro del tredicesimo attacco del campionato, poteva finire in goleada contro una difesa che, fino ad oggi, aveva offerto il meglio di sé in trasferta, subendo “solo” 11 gol (sui 30 incassati) in 13 gare.
Gli uomini dello squalificato De Canio lasciano l’anima sul campo, segnano due volte di destro con due mancini (Mesbah e Bertolacci) entrambi al battesimo del gol in serie A e falliscono almeno altre cinque occasioni clamorose: esempio di quanto contro la Juve ormai facciano festa tutti.
Troppo evidente la differenza di grinta, di rabbia e di motivazioni messa in campo dai salentini rispetto a quella offerta dagli uomini di Del Neri, a loro volta sempre in ritardo, molli, svagati e senza un minimo di logica e di idee nelle iniziative.
Disarmante la prova dei difensori, nessuno escluso, sempre scavalcati dagli avversari diretti nell’uno contro uno e distratti come neppure all’oratorio sui lanci lunghi.
Chi pensava di aver risolto i problemi di retroguardia con lo spostamento di Chiellini e l'innesto di Barzagli, dovrà ricredersi.
Un problema, quello difensivo, di attenzione e concentrazione, oltre che (indubbiamente) di fondamentali, ma è un dilemma che non riguarda solo la difesa, spesso abbandonata al proprio destino da una cerniera di centrocampo sempre aperta, con il “riscattando” Aquilani (che, personalmente, non riscatterei affatto) in versione “Casper”, specializzato nello sparire per ricomparire (forse) ogni quarto d’ora.
Il compagno di reparto del romano, quello abbonato alle follie gratuite ma che gonfiava il petto orgoglioso per aver sconfitto i pregiudizi della tifoseria nei suoi confronti, si rende protagonista di una prestazione a dir poco vergognosa, farcita di errori tattici e tecnici con pochi precedenti, il tutto condito da quella proverbiale dose di indolenza che il ragazzo è uso sciorinare nelle giornate in cui diventa l’uomo in più.
Ovviamente per gli avversari.
Alcuni esempi pratici?
Melo non è andato una sola volta a contestare all'avversario diretto il rinvio del portiere leccese, lasciando sistematicamente un comodo controllo di palla al mediano giallorosso di turno; Melo si è più volte incaponito nel tenere il possesso della sfera per poi perderla banalmente;
Melo ha portato un paio di chiusure da brivido sugli avversari, entrambe dal lato sbagliato, lasciando scoperta la linea di passaggio verso la porta bianconera.
C’è tutto questo campionario di sciocchezze nella partita del brasiliano, ultimo esponente di una filosofia calcistica che alla Juve non aveva mai attecchito in 109 anni di storia, fino alla svolta verdeoro ispirata dal prode Secco: la speranza è che a fine stagione anche l’ultimo residuato “do Brasil” trovi una sistemazione gradita altrove.
Se devo salvare qualcuno nella gara di oggi, salvo il pur impreciso Matri per la volontà e la grinta (unico a provarci) e il solito Marchisio, uno che inizia la gara in un ruolo ma finisce quasi sempre per ricoprirne dignitosamente almeno altri quattro nell’arco dei novanta minuti.
In generale, questa Juventus (intesa sia come squadra che come società) sembra non volerne saperne di abbandonare lo status di mediocre realtà che sta sempre più consolidando, e quello che leggerete adesso probabilmente mi renderà ancora più impopolare in certi ambienti.
Questa Juve è ormai come il Toro di una volta, capace di concentrarsi al massimo per una data cerchiata in rosso sul calendario (com'era il derby per i granata), ma assolutamente priva dei valori che dovrebbe possedere un gruppo che ambisca a tornare ad essere la vera Juve di un tempo.
La Juve che affrontava tutte le gare con lo stesso spirito e pensava in grande, mai crogiolandosi, per mutuare una metafora ciclistica, sugli effimeri successi di tappa ma avendo sempre presente l’obiettivo finale, la classifica finale del Giro.
Di tutto questo, oggi, non c’è più traccia.

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