Gianluigi Buffon - La solitudine dei numeri uno 2/2

RubricaCampionario - Carico e scarico di calciatori che malgrado tutto non dimenticheremo mai

"Ormai conoscevo a memoria non solo gli spogliatoi dei vari campi, ma anche gli insulti che mi arrivavano, dovunque." (Gianluigi Buffon, settembre 2006)

Riassumo i fatti. Era il 2005 quando l'effervescente Lapo Elkann, al tempo impegnato in spettacolose operazione di marketing per la FIAT, espresse alla stampa la personale opinione che l'allora dirigenza della Juventus, la famosa Triade, poco si intonasse, con quegli sguardi lugubri, i musi lunghi, il look da spietati colletti bianchi, alla fresca immagine del gruppo automobilistico torinese, proiettato nella new economy. Mancavano i sorrisi, sosteneva, passo obbligato per una Juve più glamour: quei tre nuocevano gravemente all'anelato riavvicinamento tra la FIAT e gli italiani che, eccezion fatta per i tifosi bianconeri, serbavano una pessima opinione di loro.
Poco tempo dopo, i suddetti furono spazzati via dallo scandalo di Calciopoli e sostituiti da una nuova classe dirigente di stampo fantozziano, tra cui spiccava il giulivo neopresidente Cobolli Gigli. Fu proprio lui a lanciare il preconizzato corso dello "smile": basta con i grugni truci e via a una nuova Juventus simpatica agli italiani. Seguì, come sapete, un quinquennio di sconfitte umilianti e umorismo da villaggio vacanze, che effettivamente servirono allo scopo di rendere quella squadra, in cui, per dire la simpatia, ai tempi di Boniperti erano tassativamente vietati persino i capelli lunghi, una vera barzelletta.
Lo juventino si era sempre riconosciuto, da ben prima della Triade, in una rigida etica calvinista: si lavora molto e si scherza poco. Va da sé che di calvinisti in Italia non ce ne sono, tuttavia per la propria squadra quell'identità serviva il suo scopo. Rifiuto totale per la retorica vacua e new-age del sorriso come motore di progresso, per la spettacolarizzazione televisiva del calcio, roba buona per i milanisti, per il joga bonito e tutta l'allegria brasileira degli spot Nike. Fino al varo del piano quinquennale della simpatia, infatti, di brasiliani da queste parti se n'è visti ben pochi.
Lo juventino lavora, non ride. Sapete bene quanta affezione ci sia verso quest'immagine antipatica, anche da parte di persone che invece poi sono ragazzi molto scherzosi. Il sabaudismo, versione torinese del protestantesimo, ci è costato magari anche qualche rimpianto. Non Cassano, no, ma forse Maradona. Si dice che anche il delizioso Thierry Henry si trovasse poco a suo agio nell'ambiente bianconero, proprio per le pressanti richieste di mostrarsi concentrato e i continui inviti al rigore, tanto da sconsigliare il trasferimento a Torino all'amico Anelka. Pazienza: le scelte identitarie presentano il loro conto. Bisogna soltanto essere disposti a pagarlo.

Buffon, ad esempio, pagò questo prezzo, rimanendo alla Juventus, anche nell'annus horribilis della Serie B. Una scelta di vita che avvenne senza i tentennamenti che manifestarono altri e nonostante le opportunità dorate che gli si aprivano altrove. Di tutti i pezzi pregiati della Juve di Capello lui era forse il più pregiato: lo volevano tutti. Anche e soprattutto gli acerrimi nemici, Milan e Inter. Buffon rimase, non certo per convenienza, durante il periodo grigio di Ranieri e quello nero di Ferrara e Delneri.
Le cose per la Juve andavano di male in peggio, ma Gigi prendeva tutto con filosofia. La Serie B è bellissima, spiegò in principio, e sono contento di provare questo campionato. Polemiche zero, radianti sorrisi e sinceri abbracci con gli avversari, sportività assortite. Gigi appariva contento di essere diventato un personaggio trasversale, che piace a tutti. Campione del Mondo, sportivo leale, uomo felice. Non si arrabbiava più dopo una sconfitta, prendeva tutto con serenità. Buffon era evidentemente stanco del professionismo feroce, di una dimensione pubblica che invadeva il suo privato, del clima di guerra civile tipico del calcio italiano, culminato nel putsch di Calciopoli, con i suoi vincitori e i suoi vinti. Voleva starsene un po' tranquillo, finalmente, in una dimensione normalizzata. Non voleva più andare à la guerre comme à la guerre, in nome dell'appartenenza alla propria squadra, ma cercava invece di coltivare valori sportivi olimpici, lontani da quel machiavellismo che il sistema calcio impone. Lo faceva con una nuova ingenuità, quella di chi sa come vanno le cose in realtà, ma si è stancato della disillusione.
Va da sé però che ogni ingenuità, anche quella (ossimoro) più consapevole, si presta ad essere manipolata. E infatti, a non saper né leggere né scrivere, la simpatia di Buffon è stata per molti versi simbolica dell'interregno ridanciano di Cobolli Gigli e perciò indigesta a molti tifosi hardcore, come peraltro il sottoscritto. Il sabaudismo non ammette eccezioni per gli eroi: lavorare tanto, parlare poco, ridere meno. Quando si perde, poi.

Le intenzioni di Gigi erano sicuramente nobili. Sdrammatizzare il calcio, ad esempio. Bellissimo. E' possibile? Forse sì, per carità, pensando con una nuova ingenuità. Era però, con tutta evidenza, il momento sbagliato per fondare un nuovo umanesimo. Le divisioni che caratterizzavano il calcio italiano non si traducevano più in equilibrio di potenza. I tribunali avevano decretato vincitori e vinti e la Juventus stava stabilmente nella seconda categoria, ora anche in campo. Un' evidente ingiustizia aveva determinato questo stato di cose ed era impossibile accettarlo. La simpatia di Buffon ci sembrava quindi una pavida accettazione della sconfitta, in campo e fuori, e non la coraggiosa rifondazione di un'etica olimpica. Capitano, quei momenti in cui non ci si capisce.

La storia buffa di Gigi si conclude comunque nel 2011. Un errore marchiano su un tiraccio di Gattuso consegna partita e scudetto al Milan. Nondimeno, al termine dell'incontro, Gigi ride e scherza col compagno di Nazionale. Questa volta si aggrottano parecchie sopracciglia, anche perché in quella stagione il calo del rendimento è evidente. Buffon intanto ha scoperto che essere un personaggio trasversale non lo ha protetto da squallide malignità sulla sua famiglia.
Arriva Conte e lo convince a fare di nuovo il personaggio "di parte". Incazzato, incontentabile, à la guerre comme à la guerre. Butta fuori dalla porta il goal di Muntari e ammette che, se avesse visto che la palla era dentro, lo avrebbe poi negato davanti all'arbitro. La politica del sorriso è dismessa. Lo attaccano da tutti i fronti, è il cattivo esempio per antonomasia. Proprio lui, uno di quei pochi che aveva provato davvero a essere di buon esempio.
In estate, decide di mettere la lealtà al servizio della solidarietà all'allenatore Antonio Conte e ai compagni Criscito, Bonucci e Pepe, sotto accusa per una storia di calcioscommesse. Attacca magistrati e giornalisti. I suoi argomenti si riveleranno lungimiranti, oltre che giusti. La vendetta non si fa attendere: in un attimo salta fuori un dossier su di lui. Procura-giornali è un tragitto brevissimo, percorso alla massima velocità. Accuse risibili, ma intanto lo sputtanamento c'è.
Buffon adesso è incazzatissimo. E gioca sempre meglio. L'ultima stagione è di nuovo superlativa, viene premiato come miglior portiere della Champions League. E' sempre più juventino, vuole educare solo i suoi figli, amare solo la sua famiglia. E' pieno di motivazioni.
La rinnovata ingenuità è stata scalzata a forza da un nuovo disincanto. Non puoi cambiare il calcio, non puoi essere amato da tutti.
E non importa se per un periodo non ci siamo capiti, perché se devo pensare a qualcuno che si è portato sulle spalle il peso di essere juventino, oltre a quello insopportabile che tocca a un portiere, penso sempre a lui. Non Superman, ma un uomo vero, di quelli per cui l'esercizio di trovarsi a immaginare cosa avresti fatto tu al suo posto merita una riflessione un po' più lunga di quella che siamo soliti abbozzare in questi casi.

La sua vicenda umana nel mezzo del terremoto della Storia del calcio, una vicenda che aveva senso contrario rispetto allo scontro in atto, ossia la ricerca di una pace personale, è la storia di un uomo e non di una leggenda o, peggio, una mascotte. E' la storia di una ricerca, quella di dare un senso pieno al proprio lavoro, che impegna pochissime persone, anche fuori dal mondo del calcio, e rifiuta di appoggiarsi alle comode giustificazioni che ogni mondo professionale offre gratuitamente. Una ricerca che termina dove comincia, nell'identità di squadra, ma con il grande coraggio di averla prima sublimata con la scelta di rimanere alla Juventus anche in Serie B e poi discussa. Infine ritrovata. La lotta di una persona cerebrale impegnata in un lavoro che ti manda ai matti ma preso dannatamente sul serio.
Ci sono quei portieri che quando sono costretti a parare un tiro centrale, scagliato dal cerchio di centrocampo e contrastato da tre giocatori, si abbandonano a scenate isteriche verso i compagni di squadra colpevoli di aver concesso tale succosa opportunità agli avversari. Roba che viene da chiedere: ma tu che stai qui a fare, scusa? E' ovvio che preferirebbero non toccasse mai a loro.
A quelli come Buffon, invece, tocca sempre, e non pensano nemmeno un secondo a dar la colpa a qualcun altro.
Perciò prima di mettersi le sue scarpe o infilarsi i suoi guanti, tenete bene a mente questo.

"Ci fu un fiume di polemiche per il goal di Muntari, mi beccai una marea di critiche, alcune civili, pur se non condivisibili, altre invece gratuite e piene di insulti. Tutto questo è stato il prezzo da pagare per avere detto la verità, cosa che io faccio sempre. (...) Su tutto quanto è successo, mi preme aggiungere una sola cosa. Io non devo dare l’esempio ai bambini. L’esempio devo darlo ai miei, di figli, a quelli degli altri non devo nulla". (da "Numero 1", autobiografia di Gianluigi Buffon).



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