Una sconfitta da cui imparare

asso coppa"Vincere è l'unica cosa che conta", diceva quello, quindi figuriamoci cosa sia perdere. Però se uno perde senza imparare nulla dalla sconfitta perde due volte, aggiungerei io. A maggior ragione per una squadra come questa, che per vincere ha dovuto fare un capolavoro lungo 38 giornate e che non poteva pensare di avere concluso il suo percorso di crescita che, fisiologicamente, deve avere anche degli intoppi. Cosa c'è da imparare da questa sconfitta, allora, per non perdere due volte? Secondo me l'insegnamento da trarre è diretta conseguenza dei motivi per cui si è perso. Ho visto che molti pongono l'accento sulla formazione iniziale, io invece sono dell'idea che avremmo perso lo stesso anche se avessero giocato tutti i titolari possibili. Beninteso, le scelte di Conte sono criticabili come in tutti i bar sport avviene ogni lunedì; c'è chi ha giocato per passerella, per riconoscenza e chi invece magari non doveva giocare per acciacchi fisici (leggasi Vidal, pubalgia) e invece ha giocato lo stesso. Sono scelte sulle quali non entro perché a posteriori si vince sempre a mani basse.

La mia idea è che questa sconfitta possa diventare un punto di svolta molto più importante di quanto non appaia a prima vista se servirà a compiere un altro dei famosi "step" contiani: sprovincializzare la mentalità di questa squadra e farle assumere finalmente una dimensione europea. Si è spesso parlato di una Juve che gioca da grande ma pensa da provinciale in termini positivi, e sicuramente in questa stagione appena conclusa questo è stato, almeno fino a domenica, un grosso merito. Lo è stato perché il contesto lo richiedeva: venivamo da due settimi posti, bisognava ridiventare vincenti e farlo senza essere imbottiti di fuoriclasse, ma di tanti buoni giocatori che avevano perso l'autostima. Ragionare da squadra provinciale, porre l'accento su elementi più mentali e caratteriali che non tecnici è stata senz'altro una di quelle "scorciatoie" che Conte invocava per percorrere più velocemente possibile la strada che dai settimi posti portasse alla vittoria. Poi la vittoria è arrivata, e per tanti motivi la festa che ne è conseguita è stata essa stessa più da provinciale che da grande. Dieci giorni ininterrotti che, volenti o nolenti, hanno fatto disperdere tutte quelle energie mentali e nervose che sarebbero servite per affrontare la finale di Coppa Italia in una maniera diversa da quella che si è invece vista. Lo ha riconosciuto lo stesso Conte che la squadra non era affamata, che ha vinto la squadra che ha voluto con più forza l'obiettivo finale, quella che ha messo in campo quel qualcosa in più che di solito, quest'anno, mettevamo noi. La mia non è una critica per gli eccessivi festeggiamenti, anzi credo che non potesse essere diversamente perché questo scudetto ha racchiuso in sé così tanti significati che non era possibile non sfogarli in maniera così intensa e prolungata. E' andata come doveva andare e ci è costato l'obiettivo minore della stagione. A caldo brucia, ma a mente fredda credo ci possa stare, a patto che si riparta scrollandosi di dosso certi provincialismi che ora non servono più, ma anzi possono diventare dannosissimi.

Ebbene sì, quel ragionare da squadra provinciale che tanto ci è servito da settembre a maggio alla fine ci si è ritorto contro, facendoci perdere la bussola. Ora però bisogna guardare al futuro e fare sì che questa sconfitta e i motivi che l'hanno accompagnata siano da insegnamento per cambiare marcia in quel processo di continua crescita che è in corso. In che modo? Secondo me abbandonando definitivamente certi atteggiamenti mentali che non sono solo figli di questa stagione, ma che spesso hanno fatto capolino in vari momenti della storia di questa società. L'afflosciamento che tantissime volte ha caratterizzato la Juve quando doveva giocarsi una finale secca è un difetto da provinciale. La mancanza di quella cattiveria che ti farebbe vincere una Coppa Italia pochi giorni dopo aver trionfato in campionato è figlia anche di retropensieri che sono da provinciale, magari anche inconsci o indotti dall'ambiente esterno, del tipo: ok abbiamo vinto, ma vediamo di non esagerare per non dare troppo fastidio. Il sentirsi sicuri nel proprio orticello ma smarrirsi sul più bello quando serve invece sbattere la propria forza in faccia ad una platea più vasta è un provincialismo che tante volte ci ha fatto incazzare nel corso della nostra vita di tifosi.

Vado oltre, senza voler mancare di rispetto ad un allenatore che per me dovrebbe rimanere sulla nostra panchina per i prossimi vent'anni: non puntare su un modulo tattico fisso ma scegliere tra due in funzione della squadra che si va ad affrontare è un atteggiamento molto provinciale, che è andato bene quest'anno ma deve essere immediatamente abbandonato se si vuole acquisire finalmente una mentalità vincente a livello europeo. Quante grandi squadre europee conosciamo che cambiano impostazione tattica per giocare "a specchio" rispetto all'avversario? E' un ragionamento da piccolo che aspira a diventare grande, ma ad un certo punto sono gli altri che devono temere te e adeguarsi a come giochi tu, non viceversa. Quella è una cartina di tornasole attendibile che certifica l'avvenuto ultimo step. Vado più nello specifico: per me il 4-3-3 è il modulo ideale di questa squadra, quello che non snatura i terzini reinventandoli esterni a tutto campo e che assicura maggiore imprevedibilità offensiva. Non è possibile che per far giocare tutti insieme i tre centrali si debba rinunciare a un gioco efficace sugli esterni, che nel calcio moderno è imprescindibile, essendo costretti a schierare dei difensori (con tutti i loro limiti tecnici) aggiunti a centrocampo. Mi auguro fortemente che le scelte di mercato vengano impostate in esclusiva funzione del 4-3-3, e intervenendo ovviamente in maniera massiccia nell'unico reparto non all'altezza, quello avanzato. Pur se in condizioni diverse, credo il mercato debba ricalcare in avanti quello della stagione 1996-97, quando dopo la conquista della Champions League andarono via due pilastri come Vialli e Ravanelli e il reparto venne rifondato con un giocatore che oggi sarebbe stato definito "top player" (termine orribile) come Boksic e due giovani di grande avvenire come Vieri e Amoruso. Oggi abbiamo Del Piero che ha finito la carriera e almeno due tra Matri, Quagliarella e Borriello che saranno da tagliare per rifondare il settore attualmente più provinciale meno di livello europeo della rosa.

Ragionando in quest'ottica, a mio avviso la sconfitta in Coppa Italia potrà essere un punto di svolta importante per compiere l'ultimo passo verso la ricostruzione di una Juve che deve recuperare il meglio del suo dna passato, scartando però quei difetti che sono atavici e che, prendendo tutto il pacchetto, si rischia di portarsi ancora dietro. Perché tra un anno, di questi tempi, ci deve essere un'altra finale a occupare i nostri pensieri quotidiani e deve essere, per una volta, non una "solita" finale da Juve, ma da squadra che dopo 115 anni ha trovato ancora il modo per migliorare se stessa, perché come diceva uno che sapeva guardare oltre: "Una cosa fatta bene può essere sempre fatta meglio".