Alex Del Piero, il bianco e il nero

del pieroIn fondo per lui è stato relativamente facile nascondere la commozione. Alessandro Del Piero ha spiegato come ogni volta che sentiva salirgli il magone in gola durante il suo interminabile ultimo giro di campo sia riuscito a celarsi all’occhio indiscreto delle telecamere. Si è fermato, ha finto di raccogliere una delle decine di sciarpe lanciategli dai tifosi; oppure di allacciarsi le scarpe o massaggiarsi il ginocchio ferito dal carneade Cazzola. E ha atteso che passasse. Noialtri da raccattare non abbiamo niente e se le ginocchia dolgono è la vecchiaia, mica il colpo proibito di un difensore dell’Atalanta. E l’unico motivo per cui non scoppiamo a caragnare è che c’è una moglie juventina da consolare mentre versa lacrime sulle spalle di Alice, talmente ignara di tutto, coi suoi 15 mesi, da non essersi neppure lamentata col nonno per l’improvvido regalo post-trentesimo scudetto. La maglia numero 28 di Diego. Ma il nonno amava Liedholm e Rivera. Perdonali. Non sanno quel che fanno.

Mentre allora il tifoso piange e chissà se piange più per l’addio di Alex oppure per i 22 anni che aveva quando quegli segnò alla Reggiana e che ora non ci son più - «Inizi a invecchiare quando il tuo calciatore preferito ha meno anni di te», afferma pressappoco un esperto di catarsi calcistiche come il londinese e gunner Nick Hornby - il critico scalpita. E fra kleenex, battimani e urrà non dimentica che se il fantasista di San Vendemiano è stato - quanto difficile è coniugare questo verbo essere al passato, quasi un ei fu di memoria manzoniana - la Juventus, ebbene, lo è stato nel bene e nel male. Nel bianco o nel rosa dell’improbabile veste da trasferta; e pure nel nero più cupo.

È stato la Juve perché come tutti i gobbi ha tanto goduto e festeggiato così a lungo e così spesso da far sembrare la vittoria un’abitudine. Ma come la Juve non ha mai compiuto l’impresa più agognata e cioè quella di aprire un vero e proprio ciclo glorioso a livello internazionale. Sogno proibito che più volte è stato alla portata di Madama e invece non s’è concretizzato mai. Ed è stato colto al contrario dal grande Real, dal Barcellona e dal Liverpool; a denti stretti diremo: sì, anche dal Milan; dall’Ajax e su scala minore dal Forest di Brian Clough ora stabilmente piazzato in serie B inglese.

Un’ossessione che ci condurrà dritti sul lettino dell’analista, altra esperienza che Nick Hornby conosce per testimonianza diretta e sulla quale Pinturicchio ha a nostro avviso responsabilità tali da potergli addebitare almeno una parte della specialistica parcella. Certo, era in campo a Roma per la conquista della Champions League del 1996; ed ebbri di birra e felicità abbiamo accolto pochi mesi dopo il destro sotto la traversa con cui stese in coppa Intercontinentale gli argentini del River Plate.

Né scordiamo che a Monaco lasciarlo in panca contro il Borussia Dortmund fu forse un drammatico errore di mister Lippi, visto che appena entrato segnò una rete tanto inutile e illusoria quanto bella tecnicamente, con un colpo di tacco al volo. Difficile è però dire in quale polverosa lampada si fosse andato a cacciare il suo genio ad Amsterdam quando si perdette sì per un gol di Mihatovic segnato in fuorigioco di un metro abbondante, ma pure senza scendere di fatto sul rettangolo verde.

Impossibile è non ricordare la sua latitanza nella sciagurata finale di Old Trafford contro il Milan quando il Capitano era atteso a spazzar via le ombre e i timori e i tremori dovuti al forzato forfait dell’uomo più in forma e temuto del momento, Pavel Nedved. E ci lasciò ad aspettarlo, come si trattasse veramente di quel Godot beckettiano cui l’aveva accostato la perfida ironia dell’Avvocato.

Inimitabile nelle competizioni di ampio respiro e puntuale all’appuntamento con la Storia, 5 maggio 2002 compreso, il pur commosso cuore gobbo del maggio 2012 ad Ale non perdona il braccino tennistico mostrato in tante sfide secche. In casacca azzurra altrettanto. La rete dell’auf wiedersen alla Germania del 2006 è un due a zero siglato a tempo quasi scaduto, dopo che il colpo del Ko alle truppen di Klinsmann lo aveva già assestato Fabio Grosso, un Cazzola il cui destino fu benevolo. Quando sei anni prima l’uppercut decisivo avrebbe potuto sferrarlo lui ai cugini francesi nella finale degli Europei, sfoderò dapprima un obbrobrio mancino e poi una botta a colpo sicuro che però finì per centrare in pieno il corpo del pelato estremo difensore e noto sciupafemmine Fabien Barthez. Come tutti i totem e segnatamente quelli molto, forse troppo, longevi Alessandro Del Piero non è solamente il sorridente e accattivante caratterista che fa da spalla a un’ex Miss Italia nei caroselli. Ma anche uno del quale il compagno di squadra, e poi mister, Ciro Ferrara ha dichiarato che «vuol giocare sempre» lasciando così trapelare fra le righe una posizione di leadership forse non sempre accolta di buon grado fra le mura sacre dello spogliatoio. Sospettarlo è facile, vista la prontezza con cui rifecero i bagagli per lasciare Torino talenti come quello di Pippo Inzaghi che, a dispetto della mole di reti segnate insieme, con il Capitano non legò granché; e soprattutto quello di Zinedine Zidane, fra i pochissimi che forse avrebbero potuto finire per fare ombra al Moloch col numero 10.

Abbracci e ringraziamenti di circostanza a parte, con la sua liquidazione, e prima ancora con lo stesso arrivo del sergente di ferro Antonio Conte, si può pensare che la Vecchia Signora abbia voluto riattualizzare un principio ricorrente nella mitologia di ogni latitudine. La vita nasce o rinasce sempre dopo il sanguinoso sacrificio di una divinità, le cui membra dilaniate vengono poi offerte in pasto ai fedeli. Solo l’olocausto può garantire un’esistenza rinnovata e assicurarne la solidità e perennità. Per questo, se metaforicamente il 13 maggio del 2012 il Re è morto, si gridi ancora viva il Re. E per quanto le si possa augurare di no, è probabile che anche Alice avrà alla fine la sua bella dose di lacrime da versare su una maglia differente da quella numero 28 di Diego, bidone do Brasil. E naturalmente un altro idolo da sacrificare e incolpare per i suoi rovesci e le sue sofferenze sportive. Ora noialtri possiamo tornare a caragnare per i 22 anni che, direbbe De Gregori, «ti volti a guardarli e non li trovi più». A ben pensarci, lasciarli in compagnia di Del Piero non è stato male.