Torino, provincia di Juventus - I tram che si chiamavan Desiderio

Pareva di attaccare la porta avversaria, se si prendeva il tram per andare al Comunale. No, non sono uscito di melone, sto descrivendo l’esodo juventino che, dalle periferie nord della città, attraversava Torino per giungere a Santa Rita. Si attaccava col tridente, si direbbe oggi con un termine alla moda. Da Regio Parco l’8 si riempiva di tifosi che si guadagnavano il pane alla S.P.A. di Stura o alla Manifattura Tabacchi; dall’Astanteria Martini (Ospedale S.Giovanni Bosco odierno) si muoveva la truppa della Barriera di Milano, su convogli pieni e col numero 10 nella lunetta sopra al manovratore (definizione scritta su una targhetta di metallo, che invitava a non parlargli); da via Chiesa della Salute, la Madonna di Campagna si mobilitava abbordando il 9, dopo lunghe settimane alle Ferriere o sui cantieri di una Torino che si stava costruendo, più periferia della periferia.
Che grande attacco: 8 Causio, 9 Anastasi, 10 Capello; voglio sperare che il capo dell’A.T.M. fosse granata: migliore nemesi non avrebbe potuto creare! Che grande emozione salire sul predellino del tram e piazzare la bandiera fuori del finestrino, per vederla garrire, sgonfiarsi, rianimarsi, garrire, sgonfiarsi, eccetera, fermata dopo fermata.
Anche quella domenica Mario ed io ci telefonammo a pranzo per decidere quale tram prendere. La scelta cadde sull’8: lui in via Maddalene, io in corso Novara, all’angolo di via Bologna ci “beccavamo” al brucio. Non era una domenica qualsiasi: era LA domenica. Al Comunale la Juventus chiudeva il campionato con un appuntamento storico. Poco importava dell’avversario (il Lanerossi Vicenza, per la cronaca), già salvo oltre tutto, l’imperativo categorico era vincere, con Milan e Torino alle costole. E, dopo cinque lunghi anni di astinenza e digiuno di vittorie in campionato, una Coppa delle Fiere persa senza… perdere, scudetti estemporanei vinti da Fiorentina e Cagliari, era la volta nostra: niente e nessuno ci avrebbe fermato.
In settimana avevamo rinnovato il guardaroba dei vessilli, per cui fuori dal finestrino sventolavano due bandieroni nuovi di pacca, esibiti come trofei in faccia ai passanti del centro. Si scendeva davanti alla piscina comunale e poi di corsa ai botteghini a comprare i biglietti ridotti, sotto i 16 anni. Per la verità, 16 anni io già li avevo compiuti, ma Mario no e lavorando un po’ di lametta ed un po’ di smorfia compassionevole, siamo sempre riusciti ad evitare dubbi e controlli. D’altra parte, non c’è mica da vergognarsi, il convento passava il ridotto; se no niente…
La Filadelfia era casa nostra, casa comune, sacralità nel profano pallonaro, ripostiglio di decine e decine di avventure e battaglie. Si imboccava una delle uscite alte e poi sotto il tabellone, al centro esatto della porta: in 2° scientifico la prospettiva non si è ancora studiata sui banchi di scuola ed invece si è già fatta la scelta fondamentale di una vita, la squadra del cuore. A 16 anni non si fanno i sofisticati, si tifa e basta.
Parlo per quei giovani che si sentono ammaliati dentro lo Juventus Stadium. Cari miei, voi non sapete e, purtroppo per voi, non saprete mai che cosa vuole dire stare sugli spalti di uno stadio Comunale esaurito, stracolmo, debordante 70.000 juventini e con 60.000 bandiere al vento, sventolate come atto d’amore per la propria amante. Le 10.000 bandiere mancanti sono dei signori della tribuna (allora c’era solo una tribuna), già in odore di “pinguinitudine”! Un solo bianco e nero che copriva le gradinate, senza soluzione di continuità, prima, ad un goal, dopo la partita, da brividi!
Alla mezz’ora vincevamo 2 a 0, Spinosi e Haller avevano decretato che lo scudetto era nostro. Per tutto il tempo che mancava all’invasione di rito, i cori e gli sfottò davano fondo alla voce, con la conseguenza che alla sera non si poteva nemmeno rispondere ai rimproveri dei genitori, perché afoni. Ma furono quelli i momenti in cui ripensavo ai pugni al cielo di Cesto Vycpalek, verso la Filadelfia, felice di vincere un campionato, dopo che il destino gli aveva tolto un figlio su quel maledetto aereo schiantatosi a Punta Raisi. Eh sì, perché lassù c’era anche Ezio, nostro compagno di classe e di basket, al suo primo volo, felice come una Pasqua di volare per la prima volta. Che strano mistero, la vita!
Decidemmo, Mario ed io, di prendere il 10 per il ritorno. Che stranezza, a pensarci ora, forse volevamo fare un mini corteo, lui ed io, dall’ospedale fino a casa sua, boh! Le bandiere sventolavano fuori dal tram, a giusta ragione, eravamo campioni d’Italia; quando due tizi, ad una fermata, si attaccarono come per strapparle via, insultandoci. La ripartenza del tram produsse il danno: la mia si sfilò di brutto, mentre Mario riuscì a salvare la sua. Restammo sbigottiti, allibiti e avviliti. Fu solo un momento, eppure la memoria si ribella anche a distanza di tanti anni. Ci avevano scambiato per chi non eravamo, volevano appropriarsi del primo trofeo di “guerra” che capitava ed hanno visto noi? Non lo saprò mai.
A casa la sera ci fu conciliabolo con la conclusione che portare la bandiera allo stadio è pericoloso e che soprattutto non si tirano giù i finestrini del tram “che poi si prendono degli accidenti…” Era normale che la mamma pensasse alla maglia di lana…
Alla bandiera seguente pensò una vicina di casa che, da brava dipendente Facis, non fece fatica a confezionarla enorme, suscitando le ire funeste di mio padre che, si dovette prodigare “obtorto collo” a ricavarne il bastone, con non poche imprecazioni, da Juventino “tiepido”, davanti a noi figli, poi chissà altrove…
Era il mio secondo scudetto, dopo la papera di Sarti a Mantova. Il primo festeggiato allo stadio. L’alba di una serie impressionante di vittorie continue e continuate, che fino ad allora non aveva precedenti. Non lo potevo prevedere. Ciò che sapevo invece, e molto bene, era che avrei ancora preso tanti tram, 8, 9, 10 indifferentemente, come un attacco imbattibile. Causio, Anastasi, Capello, in un epoca in cui i numeri andavano da 1 ad 11, senza cifre fantasiose, ma con la continuità che produce le certezze. Come ad esempio la certezza di quanto era bello attraversare Torino dalla Barriera al Comunale, là dove la Juve non si faceva desiderare! 
 
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