Quella tragica sera a Bruxelles

tragedia dell'HeyselLa notte precedente la partita non chiusi occhio.
L'orario del treno che ci avrebbe portato nella capitale Belga era previsto alle 5 del mattino, e l'unico mio pensiero era quello di non dimenticare proprio nulla; sciarpa, maglietta "Ariston" con il numero 10 sulla schiena, bandierone donatomi un anno prima da un amico di mio padre assiduo frequentatore della curva Filadelfia.
Quando il treno si mosse dalla stazione avevo solo 13 anni (14 da compiere), e dopo la cocente sconfitta di soli 24 mesi primi ad Atene, alla quale presenziai, ero più che mai convinto che la "mia" Juventus mi avrebbe regalato la gioia più bella, nonostante i soliti "rosiconi" compagni di scuola, il giorno prima, mi avessero "augurato", nel modo più sarcastico possibile, una buona partita.
Giungemmo finalmente a Bruxelles a metà pomeriggio, e la prima tappa fu la Grand Place, immensa piazza nel centro cittadino.
Da buon adolescente ero rapito da un luogo completamente nuovo ai canoni soliti della piccola città di provincia in cui abitavo, e feci fatica a capire in quale situazione versavano le centinaia di tifosi inglesi riversi sul ciottolato della piazza, ricordo però oggi come allora la "pila" di lattine e di bottiglie che giacevano in mezzo alla piazza inevitabilmente vuote.
Ci spostammo in direzione ovest, per raggiungere il ristorante di una famiglia di emigrati pugliesi parenti di un nostro compagno di viaggio a depositare le valige e gli oggetti personali.
Lungo la strada i segni evidenti del passaggio degli inglesi era sotto gli occhi di tutti; vetrine spaccate, bidoni della nettezza urbana scoperchiati e buttati a terra, e come cornice a tutto questo scempio nemmeno un agente delle forze dell'ordine.
Posati i bagagli ci avviammo verso lo stadio.
Saliti sul tram che ci avrebbe portato verso l'impianto sportivo, i "grandi" cominciarono a consigliare a tutti, soprattutto a noi giovani, di togliere sciarpe e qualunque vessillo che facesse capire i colori di appartenenza.
Rimasi quasi incredulo a tale richiesta, soprattutto quando mio padre mi disse di togliermi sciarpa e cappello e di metterli subito all'interno del piccolo zainetto che conteneva qualche panino e una bottiglietta d'acqua.
Il dialogo tra noi alimentò in me un timore sempre più forte, finché la lingua parlata si trasformò in francese, un metodo che consentì di mischiarsi tra la gente del luogo, senza dar modo agli inglesi che man mano salivano sul mezzo pubblico, di inveire contro tifosi della fazione opposta.
Giunti in prossimità dello stadio, la polvere che alzavano gli zoccoli dei cavalli era inverosimile, la temperatura aveva sopravanzato i 25 gradi, e i pochi agenti a cavallo sparsi lungo gli ingressi avevano un'aria incredula nel vedere giungere una così vasta mole di persone, quasi come se non fossero pronti ad un simile scenario.
Finalmente dentro, dentro lo stadio, nella curva opposta a quella tribuna "Z" che da li a poco sarebbe diventata un inferno.
Ma in quel momento tutte le paure avute prima e durante il tragitto erano scomparse, ero tornato bambino, con la mia sciarpa al collo, il mio cappellino e quegli occhi grandi di chi, da adolescente, vede e dovrebbe vedere il mondo, sopratutto quello sportivo, come qualcosa in cui credere, per cui gioire, da raccontare per tutta la propria esistenza prima agli amici, poi ai figli e infine anche ai nipotini.
Ma... ad un certo punto, saranno state le 19:30 minuto più minuto meno, cominciai a vedere nella curva opposta un fitto lancio di qualcosa che non riuscivo a definire, forse bottigliette vuote, e in un primo momento pensai a qualcosa di divertente, qualcosa che intratteneva il pubblico pagante ad un'ora dall'inizio dell'incontro.
I miei occhi non riuscivano a distogliere lo sguardo da quel settore, nonostante la nostra curva fosse un tripudio di cori e colori.
Nel momento in cui cominciai a vedere un continuo movimento ondulatorio da parte della gente, qualcosa in me comincio a non quadrare, così chiesi a mio padre che cosa stesse succedendo.
Lui, esperto, maturo e sicuramente più consapevole di me, mi disse di non preoccuparmi, che non stava succedendo nulla, ma così non era.
Un boato scosse la parte di stadio in cui ero assiepato, crollò quel muro. Un rumore che oggi è diventato inevitabilmente sordo, ma che mi porto ancora dietro.
Nella "nostra" curva i più si accorsero della tragedia che si stava consumando, e i più esagitati cominciarono a sfondare le reti di recinzione per riversarsi ad aiutare i nostri connazionali, la paura a quel punto prese inevitabilmente il sopravvento.
Di quei momenti ricordo solo una cosa; dissi a mio padre "andiamo via".
Se ripenso oggi a quella frase, trovo quasi irreale che un bambino di 13 anni, dopo essere giunto in una città straniera a vedere i suoi idoli giocarsi la finale di una Coppa dei Campioni, abbia voglia di andare via, scappare.
Ma è altresì vero che quel bambino, in quel luogo, in quella circostanza, aveva perso tutti i punti di orientamento, tutti i parametri per cui era arrivato lì.
Quel bambino di 13 anni voleva vedere una partita, voleva vedere Platini, Boniek, Tardelli, Cabrini, voleva gioire per una vittoria e probabilmente anche piangere per una sconfitta, ma mai e poi mai avrebbe voluto vedere la paura, lo sgomento, la urla, il dolore per una "semplice" partita di calcio.
Usciti dallo stadio, il fuggi fuggi era generale, gente che scappava in ogni direzione, il servizio d'ordine fuori controllo, se mai un controllo lo avesse avuto. Ho visto persone lanciarsi dentro ai tram in corsa pur di andare via da lì, ho visto le persone delle bancarelle che vendevano bandiere e sciarpe chiudere di corsa e scappare.
Ho visto cose che mai avrei voluto vedere.
Giungemmo finalmente in quel ristorante di emigranti pugliesi, la partita era già cominciata, mio padre, per non darmi ancora preoccupazioni, mi mise seduto a guardare la partita; ma il mio primo pensiero fu rivolto a mia madre, volevo sentire la mamma, volevo parlare con lei, volevo dirle che io e papà stavamo bene.
Le notizie erano già di pubblico dominio, ricordo adesso come ieri i volti di quei signori che ci ospitarono, ricordo i loro occhi mentre guardavano noi bambini.
Non c'erano i cellulari e le linee erano intasate, non si riusciva a chiamare casa, mio padre riuscii solo a prendere la linea con mio zio, rassicurandolo che stavamo bene, che eravamo al sicuro, di chiamare immediatamente mia madre per rassicurarla che ci aveva sentito e che stavamo bene.
Mia madre, in seguito, mi raccontò che non credette a una sola parola di mio zio, pensando invece che fosse successo qualcosa, che era impossibile che fossimo riusciti a parlare con lui e non con lei, che quando Bruno Pizzul diede quelle notizie non riuscì più a parlare.
Le ultime immagini che ricordo di quel giorno sono quelle della stazione dei treni: ricordo inglesi ubriachi con la testa piena di sangue giungere alla spicciolata ad aspettare un treno che li avrebbe riportati a casa, ricordo mio padre e con lui altri compagni di viaggio che si misero davanti a noi per proteggerci da qualunque tipo di aggressione che si sarebbe potuta ancora consumare.
Ricordo che arrivò un treno, ricordo che ci salii sopra, ricordo che ero stanco, tanto stanco, ricordo che mi addormentai, credendo di lasciarmi alle spalle una giornata che invece non potrò mai dimenticare.
Arrivammo a casa. Alla stazione di Ventimiglia c'erano i giornalisti del Secolo XIX che ci aspettavano, per domandarci notizie, impressioni, come stavamo e cosa avevamo visto.
Nessuno parlò, nessuno ebbe la voglia di dichiarare nulla.
Il venerdì quando tornai a scuola, compagni e Professoressa mi accolsero quasi come un reduce di guerra. Mi rimarranno impressi per sempre i loro volti, mi rimarrà impressa per sempre quella mattinata a parlare di cosa accadde, il fatto di vedere la mia foto, quella di mio padre, e di molti altri compagni di avventura impresse sul giornale.
Non misi piede in uno stadio di calcio per oltre un anno.
Quel giorno in me morirono 39 persone e con loro morì anche la mia voglia di un certo calcio, quello delle radioline, quello dei mercoledì sera per la Coppa dei Campioni, quel calcio che un adolescente vive nella sua vita una volta sola, quel calcio che in quel maledetto 29 maggio ha tolto la semplicità e lo stupore di una partita di pallone ad un bambino di 13 anni.
Ora mi è scesa una lacrima, quella lacrima che per sempre accompagnerà il ricordo.


Vi invitiamo a sottoscrivere la petizione per cercare di salvare il ricordo di 39 angeli.

I nomi delle persone cadute a Bruxelles, i tifosi che volevano festeggiare una partita di calcio:
Rocco Acerra
Bruno Balli
Alfons Bos
Giancarlo Bruschera
Andrea Casula
Giovanni Casula
Nino Cerrullo
Willy Chielens
Giuseppina Conto
Dirk Daenicky
Dionisio Fabbro
Jaques Francois
Eugenio Gagliano
Francesco Galli
Giancarlo Gonnelli
Alberto Guarini
Giavacchino Landinni
Roberto Lorenzini
Barbara in Margiotta Lusci
Franco Martelli
Loris Massore
Gianni Mastroiaca
Sergio Bastino Mazzino
Luciano Rocco Papaluca
Bento Pistalato
Patrick Radcliffe
Demenico Ragazzi
Antonio Ragnanese
Claude Robert
Mario Ronchi
Domencio Russo
Tarcisio Salvi
Gianfranco Sarto
Mario Spanu
Amedeo Giuseppe Spolaore
Tarcisio Venturin
Jean Michel Walla
Claudio Zavaroni