Curva '71-'72

tifosiQuattordici anni, prima liceo da raggiungere in pullman: nuovi compagni di scuola, molti provenienti da altre città, non più vicini di casa, nuovi innamoramenti, nuovi professori, nuovo tutto.
E poi, la novità più importante: il primo campionato vissuto quasi interamente allo stadio. Il vecchio Comunale, quello vero, mica l’Olimpico… altri tempi: sud e nord erano solo punti cardinali. La curva era la Filadelfia, la nostra. Poi c’erano i distinti centrali e l’altra curva, quella nemica, la Maratona. La tribuna, per chi veniva allo stadio dalla periferia, per noi figli dei “baracchini”, non esisteva, punto.
Non eravamo nuovi della curva: in diverse occasioni, ce l’avevamo fatta a convincere i genitori a fare un piccolo sforzo anche negli anni precedenti… ma, nella maggior parte dei casi, ci eravamo dovuti accontentare di quell’ultimo quarto d’ora in cui i cancelli venivano aperti a chi non era fornito di biglietto.

Ma quel campionato, il ‘71/’72, ci vide protagonisti in almeno una dozzina delle 16 partite al Comunale.
Il venditore di bibite, lo sentivi strillare da lontano, tutto d’un fiato: “arranciattacocacolaebirraaa!”. Il vecchietto coi giornali, invece, di fiato ne aveva proprio poco, e lo sentivi solo da vicino, in calando: “tutospoort…”. Più tardi, era il turno dell’abusivo, che quando ti arrivava davanti, ti proponeva, di sottecchi: “malboromurattiraiban”.
C’erano i suoni della curva: i megafoni, i cori, le trombette, i tamburi… e poi, l’odore dei fumogeni, le bandiere, gli striscioni, alcuni di città lontane, talvolta sconosciute.
In campo, i nostri ragazzi, quel gruppo strepitoso costruito appena un anno prima da Boniperti e Allodi, con lo sfortunato Picchi, che ci aveva già lasciati, sostituito mirabilmente da Cestmir Vycpalek. Un gruppo già protagonista della splendida cavalcata, purtroppo non trionfale, in Coppa delle Fiere (antenata della Uefa): coppa persa in finale, senza una sola sconfitta, un record.

Cos’era accaduto? Dopo lo scudetto della Juve operaia di Heriberto, un paio di stagioni poco brillanti avevano indotto la Famiglia a cambiare radicalmente: uomini, obiettivi, idee. E non con un progetto quinquennale, ma con una programmazione attenta, ambiziosa e razionale, per tornare a vincere da subito… roba da Juve.
Negli anni precedenti, gli arrivi di Pietruzzu Anastasi e Haller, erano stati seguiti da quelli di Morini e Cuccureddu e dal ritorno del barone Causio (da Palermo, col mitico Furia). Al momento del loro insediamento, Boniperti e il fido Allodi avevano integrato il gruppo col ritorno di Bettega e l’ingaggio di Capello, Spinosi ed altri giovani promettenti, affidando la squadra all’emergente Armando Picchi, al quale, all’insorgere della malattia, subentrò poi Vycpalek, uomo dotato di grande buon senso, pacato, paterno, conoscitore del calcio e della psicologia dei suoi ragazzi. A quel gruppo, quell’anno fu aggiunto il solo Carmignani, portiere cui sembrava facile pronosticare un grande avvenire.

Una Juve sfortunata, Picchi ci aveva lasciati già alla vigilia della sfortunata finale di Coppa delle Fiere. Il nuovo campionato iniziò con la vittoria sul Catanzaro, subito seguita dalla sconfitta di Verona, già con voci di un possibile esonero del grande Cesto, voci subito rientrate.
Poi, in una domenica d’autunno ancora mite, la radiolina gracchia i risultati dei primi tempi: Milan 0, Juventus 3… all’epoca, non c’era modo di conoscere il punteggio prima dell’inizio di “Tutto il calcio minuto per minuto” e, date le premesse, sembrava incredibile. Al secondo giro di collegamenti, la conferma. All’ora di cena, il tempo della partita trasmesso in tv testimoniò a tutti noi che era nata un stella di primissima grandezza: BobbyGol, autore peraltro di una doppietta (la partita terminò 4-1: Causio e Anastasi gli altri marcatori), con il suo tacco segnò non solo una rete, ma l’inizio di una nuova era, quella di un dominio bianconero che durerà per una quindicina d’anni.

Ma quel campionato era ancora lungo… testa della classifica, vittorie con Roma, Bologna, e nel derby, pareggi sofferti con Napoli e Inter: si faceva spesso fatica, ma la mentalità era quella giusta, e il risultato lo si portava a casa. Anche un paio di sconfitte negli ultimi minuti, a Cagliari (con una megapapera di Carmignani all’ultimo minuto) e a Catanzaro, con in mezzo la tegola più grossa, la pleurite di Bettega, scoperta il giorno dopo la vittoria con i viola. E dire che in campo tutto ci era sembrato normale: partita sofferta, superiorità tecnica, grande carattere e, a un quarto d’ora dalla fine, il solito gol del nostro Bobby a chiudere i discorsi e dare il via alla consueta esultanza. Era il decimo in 14 partite, inarrestabile.
Noi ci scoprimmo orfani del nostro idolo, ma soprattutto, Vycpalek dovette prendere atto che l’unico altro attaccante in rosa era Novellini, volenteroso ma più che altro un’ala, non una vera punta. E allora, la capacità di modificare il modulo, di cambiare faccia alla squadra a seconda dell’avversario: da allora, in diverse occasioni, Haller si improvvisò seconda punta “atipica”, con Causio che diventava trequartista e Cuccureddu ad aumentare i muscoli del centrocampo… geniale nella sua semplicità.

Appena usciti dalla Coppa Uefa, perdemmo il derby di ritorno (con gol decisivo di Agroppi!): brutti pensieri, testa a testa in classifica con Toro, Milan e Cagliari a giocarsela con noi. Troppi pareggi in trasferta con le piccole rendevano tutto più difficile… dalla nostra, il fatto che tre delle ultime 4 di campionato le avremmo giocate in casa: Inter, Cagliari, trasferta a Firenze, poi Vicenza al Comunale.
Juve-Inter fu qualcosa di più di una partita (eravamo ancora 13 scudetti a 11, e loro erano campioni in carica): 3-0 il risultato finale, con tripletta del Barone, e voce persa per almeno un paio di giorni… ma ne era valsa la pena! Coi gol di Furino e dell’amatissimo Anastasi vendicammo la sconfitta dell’andata col Cagliari. Ma fu una giornata strana: si gridava meno del solito, anche l’esultanza era più contenuta, vissuta con minor trasporto. La gioia per la vittoria e per il quasi scudetto venivano offuscate dal rispetto per il dramma della morte del figlio di Vycpalek, avvenuta due giorni prima nel tragico schianto dell’aereo a Punta Raisi.

Vivemmo poi, dalla radio, il pareggio di Firenze come la conferma che, nonostante tutte le disgrazie e le avversità, quel campionato sarebbe stato nostro. Intanto, le recriminazioni e le insinuazioni degli avversari erano già partite. Rivera, capitano del Milan, era già da tempo in aperta polemica con gli arbitri, e i granata piagnucolavano da un paio di mesi per un loro gol non visto dall’arbitro a Genova, con palla rimandata in campo da Lippi, Ju29ro ante litteram: il sentimento popolare era già stato adeguatamente istruito a considerarci “ladri a prescindere”, e mancava un quarto di secolo all’episodio Iuliano-Ronaldo!
Ma c’era l’ultima di campionato, in casa col Vicenza: poco più di una formalità (all’epoca, le differenze tra le prime e le altre erano incolmabili). Formalità per la quale… non avevamo proprio la possibilità di procurarci i biglietti, e anche i nostri tentativi di entrare a sbafo fallivano miseramente: nessuna accondiscendenza da parte degli addetti.

Via Filadelfia, seduti sui mancorrenti della biglietteria, ad ascoltare i rumori dello stadio: un misto di malinconia e fiduciosa attesa delle esultanze a venire. Si avvicina una signora anziana, elegante senza ostentazioni, che ci chiede notizie: la partita è appena cominciata, 0-0. Sorride al nostro sconforto, è venuta a piedi da casa, abita poco lontano, dice che lo fa spesso quando giochiamo in casa, per sentirsi vicina alla squadra, ma non entra allo stadio da anni. Potrebbe chiedere alla società, se volesse: è la vedova di Umberto Caligaris, terzino della Juve dei 5 scudetti di fila negli anni ’30, scomparso da una trentina d’anni.
E si ferma lì con noi, quella vecchina simpatica e Juventina dentro, e si chiede in maniera accorata perché i tifosi in curva non si facciano sentire ancor di più: “I ragazzi, in campo, ne hanno bisogno, siete voi che gli date cuore, è il vostro incitamento che li trascina nei momenti difficili!”.
Mentre ci racconta qualche aneddoto della Juve di quarant’anni prima, e noi non sappiamo se dar retta a lei o al tifo che nello stadio finalmente si fa sentire, prima Haller, poi addirittura Spinosi, provvedono con i loro gol a cucire il 14° scudetto sulle maglie dei nostri ragazzi. C’è ancora un’ora di partita, ma quell’uno-due ha scritto la parola “fine” sul campionato… e abbracciamo la nostra nonna ad honorem, trascinandola persino in qualche coro improvvisato.
Poi, l’apoteosi: decine di bandiere, centinaia di persone riempiono via Filadelfia e tutta la zona intorno al Comunale, in attesa del fischio finale. Non entriamo neppure, negli ultimi quindici minuti, ormai la festa è lì, anche se la nonna portafortuna ci ha già salutati, con un sorriso: prima che ci fosse “troppa ressa”, è tornata a casa.