Il caso Amauri e il potere enorme dei calciatori

amauriIn principio fu la sentenza Bosman: sedici anni fa, il calciatore belga vinse la sua lunga battaglia legale davanti alla Corte di Giustizia Europea che sancì il diritto dei calciatori europei di cambiare squadra a titolo gratuito nel momento della scadenza del loro precedente contratto. Fu una vera rivoluzione, che capovolse totalmente i rapporti di forza esistenti allora tra società e calciatori, mettendo in mano a questi ultimi e ai loro procuratori un potere enorme. Potere che nel corso degli anni è, se possibile, cresciuto, costituendo un vero e proprio unicum nel panorama dei normali rapporti tra azienda e lavoratore dipendente.
Periodicamente sentiamo il presidente di turno lamentarsi del solito canovaccio per cui se un calciatore fa cinque partite alla grande corre subito in sede a battere cassa, mentre quando non ne azzecca una per mesi e mesi continua a percepire il suo lauto stipendio nel frattempo divenuto inadeguato al suo effettivo valore. Intendiamoci: in molti casi è anche colpa delle società, che nel mercato selvaggio e senza regole non esitano a contendersi campioni e presunti tali a colpi di ingaggi spesso fuori da ogni logica. Come nel caso che ci riguarda da vicino in questi giorni, dove le colpe della gestione Secco-Blanc hanno portato la Juventus di Marotta a dover pagare quasi 8 milioni lordi di ingaggio annuale ad un giocatore di livello medio basso come Amauri.

Proprio le società, però, accortesi di essere ormai con l’acqua alla gola, avevano proposto lo scorso anno, nell’ambito della trattativa sul nuovo contratto collettivo che si trascina ancora oggi, una norma che provasse a bilanciare un minimo i rapporti di forza con la controparte: imporre ai calciatori ancora sotto contratto di accettare un'eventuale offerta da parte di un’altra società purché di uguale rango e con trattamento economico paritario. Ovviamente non se n’è fatto nulla, perché il sindacato dei miliardari pallonari ha immediatamente innalzato le barricate. Si arriva così alla situazione di questi giorni, spiegata dalle parole di Beppe Marotta dell’altro giorno: una società, la Juventus, “ingabbiata” (per usare le parole di Marotta) per effetto dei continui rifiuti di Amauri a qualsiasi destinazione alternativa, anche quelle che gli garantivano di non perderci neanche un centesimo. Con la conseguenza che la società si ritrova oggi con un investimento di quasi 23 milioni di euro completamente svalutato e con un giocatore fuori dal progetto tecnico e iperpagato, dal quale non può più ricavare un centesimo e che tra un anno sarà libero di accasarsi altrove senza che nulla spetti al suo attuale datore di lavoro. E’ evidente a tutti come sia spropositato che, per effetto delle bizze di un dipendente, una società sia costretta a rinunciare a 5 milioni di euro con la consapevolezza di non incassare nulla il prossimo anno. A ciò si ricollega poi la questione del trattamento dei giocatori fuori rosa, il famoso articolo 7 di cui ancora oggi si discute: ci mancherebbe pure che, oltre ad aver cagionato un simile danno economico, il calciatore accampi pure il diritto di allenarsi insieme al resto del gruppo invece che a parte, insieme a chi non fa parte del progetto tecnico (che non vuol dire mica lavori forzati eh… semplicemente una normale e ovvia gestione di un gruppo di lavoro).

Che fare quindi? Una soluzione va trovata, perché è di tutta evidenza come i rapporti di forza contrattuale siano oggi totalmente sbilanciati da una sola parte. Reintrodurre i vecchi “parametri di svincolo” sembra impossibile, proprio in virtù della sentenza Bosman. Qualche rimedio però va trovato, se non a livello di contratto collettivo, almeno a livello di Federazione oppure di Uefa: o una soluzione normativa oppure un fondo di garanzia che tuteli le società nel momento in cui si vedono costrette a rinunciare ad un cospicuo introito a causa dei capricci del miliardario di turno. Anche se, personalmente, la proposta avanzata dalla Lega l’anno scorso e subito bocciata mi sembra la soluzione migliore. Perché, cari calciatori, cambiare squadra e città mantenendo lo stesso tenore di vita non ha proprio l’aria di essere un attentato ai diritti dell’uomo. C’è gente che è costretta a farlo più di una volta nella vita, e per molti zeri in meno.