BATTIBECK! Lapopoli

battibeckNO, NON SIAMO TEDESCHI.
Caro Battitore,
ricordo la prima e-pistola (senza e-proiettile, chiarisco) che ti mandai: era tanto tempo fa. Caro amico, ti scrivevo che il calcio italiano era bello che andato, tu mi rispondesti invece che l'Inter avrebbe eliminato il Manchester United. Il Manchester United. Tu - e i tuoi colleghi, ça va sans dire - credevate ancora di poter restare sul livello di inglesi e spagnole. E invece, profezia si avverò, i tedeschi stanno per fregarci il posto.
I tedeschi: gente che col calcio fa esattamente il contrario di quello che facciamo noi. Noi campiamo di diritti tv, loro fanno persino vedere le partite in chiaro. Aumenta il valore delle sponsorizzazioni e la gente allo stadio ci va lo stesso. Gli stadi tedeschi sono sempre strapieni: il Borussia Dortmund, quanti ricordi, riempie il suo Westfalenstadion, quanti ricordi, persino più delle grandi inglesi. E son quasi dieci anni che va malissimo. La gente ama la propria squadra, anche quando va male, spesso perché la possiede. Permane la regola del 50 1, che significa che il 51% della ditta deve essere di proprietà di compagnie senza fini di lucro in mano ai tifosi. La gente va allo stadio anche perché, sorpresa, i campionati sono equilibrati e ogni anno 7-8 squadre partono come potenziali vincitrici.
Bel modello quello tedesco, peccato che manco una Coppa Uefa.
E infatti. Da sempre le cose non si mettono bene per noi italiani, quando pensiamo di imitare i tedeschi. Non è da farsi.
Se i tedeschi ci fregano il posto, la ragione è semplice: dove hanno fatto meglio di noi è nella Uefa dove, stante la maggiore competitività interna, schieravano buone squadre, invece delle nostre poverelle-viziatelle che non vedevano l'ora di uscire. E noi li andremo anche a foraggiare questi grandi manager. Dove avremmo dovuto primeggiare noi, invece, con il nostro sistema squilibrato, fondato sulla potenza economica delle "grandi", ovvero in Champions League, abbiamo miseramente fallito. Naturalmente, come ci spiegano gli interisti tutte le volte, per colpa degli arbitri. Senza scherzare invece, per colpa della trasformazione della serie A in torneo aziendale con una squadra cannibale che ogni anno faceva calciomercato sottraendo pezzi alla seconda forza.
Noi ora vorremmo cambiare le cose con i diritti tv collettivi, fare un po' i tedeschi. Pazzi e malati, ecco cosa siamo. Mentre Barça e Real difendono strenuamente il modello individuale e dominano l'Europa, chi sportivamente (il Barça), chi economicamente (il Real che dopo cinque anni di sconfitte agli ottavi guida la classifica degli introiti con 400 e passa milioni di euro). Non siamo inglesi, non siamo tedeschi. Siamo anche noi come quelli lì, e non ce ne dobbiamo vergognare. Nel nord Europa, il tifo è più diffuso localmente e ognuno tiene al club di casetta sua. Non è così in Spagna, non è così in Italia.
Laporta è forse un mafioso? Non credo proprio. Eppure come Giraudo - che, dai dillo: "tramite un'alleanza truffaldina con Galliani (e l'Inter di Moratti e Guido Rossi e Facchetti che, strano caso, votava sempre quello che votavano loro) impediva il giusto e luminoso avvento della nuova ripartizione collettiva, milioni di euro finalmente distribuiti a pioggia per foraggiare alcuni dei più beceri, ignoranti ed onesti bancarottieri del Paese" - se gli parli di dividere il malloppo, ti fulmina. Come se dovesse mantenere lui le follie del presidente del Villarreal.
L'Italia ha un solo modo per tornare tra le grandi: sperare che il Milan torni Milan e che John Elkann venda la Juventus. Se aspetti l'Inter campa cavallo. Se aspetti il Palermo, la Fiorentina, il Napoli, tutti questi squadroni che dovremmo finanziare noi contribuenti juventini di Sky e Mediaset, altrettanto.
No, noi non siamo il popolo delle partite IVA, noi siamo il popolo delle partite e basta.
Prima ci piacerebbe vedere i conti a posto, ma a posto per davvero, mica poi scoprire altri Tanzi, altri Cragnotti, altri amorosissimi Sensi. Prima ci sarebbe piaciuto vedere l'impegno in Coppa Uefa, altro che le squadre di riserve schierate in questi anni. Prima vogliamo vedere i bilanci per bene, scrutati magari da un occhio europeo, e poi magari ci piacerebbe anche destinare a questi galantuomini perseguitati dallo Stato parte dei nostri abbonamenti alle pay-tv. Lo faremmo mettendoci una mano sul cuore, togliendola da dove sta ora, a proteggersi da possibili incursioni avversarie.
E allora dimmelo dai: passano ai quarti. Glielo auguro anch'io, come gliel'ha augurato Zaccheroni. Con lo stesso spirito del mister, che immagino - scusa se rido - sincero. E rendiamo onore a Moratti che ha tifato Fulham: non solo è un signore, ma è grazie a persone intelligenti e lungimiranti come lui che si fa sistema.
Un sistema, manco a dirlo, perdente.

LE REGOLE DI LAPO. O LE FREGOLE?
Carissimo,
mi hai molto intrigato con l’accenno alla Coppa Uefa. Concordo: è proprio l’Uefa - che da Casablanca, dopo l’operazione, è tornata Europa League - a fornire l’indice meno vago di credibilità tecnico-organizzativa dei singoli campionati. L’Uefa, più ancora della Champions. D’altra parte, permettimi una goccia d’amaro, non sarà sempre e soltanto colpa di Massimo Moratti se viviamo in un mondo che a un trofeo chiavi in mano come l’Europa League preferisce il quarto posto in classifica, una specie di libretto al portatore. E a questi eccessi sai bene come siamo arrivati. Chi ci ha condotto, e perché. L’ultima Coppa Uefa vinta risale al 1999, Parma-Marsiglia 3-0 a Mosca. Sì, il Parma di capitan Flebo (Cannavaro). Nella migliore delle ipotesi, abbiamo avuto dirigenti discreti nel gestire il «particulare» dell’azienda, ma pessimi ad amministrare, per conto della comunità, la «res publica».
Mi dirai: guarda che stai parlando di pedate, e non di Orsoline. Certo. Torniamo al periscopio Uefa. Non trascurare il giorno di attuazione: il giovedì è un gran bastardo, specialmente quando ti tocca di passarlo in trasferta. Il nocciolo, però, è un altro: se per anni e anni la forbice fra Grandi e piccole è stata di 7 a 1, come puoi pretendere che le nostre Barbie raggiungano il livello competitivo delle sorellastre estere? Per favore... Piano piano, il nostro sistema è imploso. Gli stadi di proprietà costituiscono l’ultima foglia di fico del Gallianone. A proposito: non è vero che Giacinto Facchetti ciurlasse nel manico. Mai nella vita lo avrebbe votato: glielo imponeva il padrone. Che aveva capito, come sempre, quasi niente.
Altro luogo comune: i soldi sono tutto. I soldi sono importanti, non tutto. Se il Real investe 300 milioni di euro fra Cristiano Ronaldo e Kakà e per la sesta volta consecutiva esce negli ottavi di Champions, mi auguro che converrai con me che le idee hanno ancora diritto di cittadinanza: anche nel calcio. Intendiamoci: per dare asilo politico a un’idea, bisogna essere uno «stato», e non un semplice participio passato, un «dirigente», e non un banale participio presente. Mi guardo attorno e, a casa Juventus, trovo un vuoto drammatico. La «remontada» del Siena mi ha schiantato per il fatto che, sul 3-0, ho ringhiato a un sodale juventino che faceva la ola «calma, le partite durano novanta minuti», vale a dire la più grottesca e ridicola minchiata della mia mediocre esistenza, sicuro di essere preso a calci nel sedere dall’ovvio, e invece - a babbo morto - il conoscente mi ha pure fatto i complimenti, «tu sì che te ne indendi».
Sono i momenti in cui penso a Lapo e a quello che ha combinato a Los Angeles, durante Lakers-Raptors. E, soprattutto, a come si è giustificato: «Non conoscevo le regole». Ma allora, per Brio, santo subito. E se non proprio santo, almeno presidente del Consiglio. Chi non conosce le regole da noi fa strada (Silvio Berlusconi) o viene trattato come un martire (Luciano Moggi) o un beato (Massimo Moratti). «Non conoscevo le regole»: carissimo, ecco qua il vero punto di svolta che tutti aspettavamo intrepidi. Da Calciopoli a Lapopoli, il dado è tratto. Ah, se potessimo tornare indietro. Ah, amico mio, se Zaccone avesse potuto basarsi sulla madre di tutte le prove («non conoscevo le regole»). Ah, se Luciano avesse detto «non conoscevo le regole» al posto di «mi hanno ucciso l’anima». Quanti rimpianti, quanti rimorsi. Noi che le abbiamo sempre conosciute, le fregole.
Il Battitore Libero

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